“A volte la pace si trova più in fretta quando si smette semplicemente di evitarla.
A cosa serve invitare il dolore a nuova vita quando esso smette di farsi sentire?
È come tenere una carcassa putrida in cantina e annusarla quando non si sente più la sua puzza”
L’assoluta ricerca del dolore, a ogni costo.
Lo stimolo del dolore per raggiungere vette inaspettate di estatica bellezza.
L’accettazione del dolore, senza rinuncia alla sofferenza, mezzo unico per la creazione, per la scrittura, per trasmettere se stesso e la propria intima anima.
È questo il Dostoevskij raccontato da Stefan Zweig nella biografia: “Dostoevskij. Tormento e passione di una scrittura immortale”, edito da Diarkos, tradotto da Francesco Vitellini.
Ed è proprio di Francesco Vitellini il brano in apertura, scritto nel lontano 2013, in un suo periodo artistico dedito alla poesia e alle riflessioni personali, un brano che ho ritrovato per caso e che perfettamente si adegua al testo che ho avuto il piacere di leggere.
Zweig tocca corde profonde e inaspettate della narrazione di Dostoevskij; ne esplora i sentimenti e li giustifica, anche quando sembrano irrazionali e quasi autolesionistici. La malattia, gli attacchi epilettici, la prigione, la tormentata vita sentimentale, la solitudine: tutto dovrebbe concorrere alla fine mentre in Dostoevskij tutto concorre alla creazione.
Tragedia, passione, tormento non generano morte, ma vita. Generano armonia.
Ancora una volta, dopo “Maria Antonietta. Una normale vita straordinaria” edito da Diarkos e tradotto da Francesco Vitellini, resto affascinata dalla scrittura di Stefan Zweig. La sua scrittura appassionata, personale, ricca di preziosi dettagli, apre gli occhi nei recessi delle anime dei suoi personaggi, ne illumina i tratti, rendendoli umani. Le biografie di Zweig fanno scendere i suoi personaggi dal piedistallo ricoperto da una teca di cristallo alla vita reale, per poi, in un lampo inaspettato, riportali nuovamente nel piedistallo eterno della gloria.
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